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Il dilemma dei judoka giapponesi

Finora ho parlato delle differenze tra sport e budo, ma questo tema non sarà mai davvero completo finché non si chiarirà l’argomento che affronterò ora: come dobbiamo interpretare la situazione in cui il judo, una delle discipline del budo, partecipa all’Olimpiade, il più grande e prestigioso evento sportivo del mondo?Più precisamente, non si tratta tanto del problema tra Olimpiadi e judo in sé, quanto di capire quale sia la questione essenziale che offusca la differenza tra sport e budo e come dobbiamo interpretarla. Finché non arriviamo a questo punto, per quanto si parli delle differenze storiche e delle caratteristiche tra sport e budo, la nebbia che le avvolge non si dissolverà mai del tutto.


Questa situazione è il risultato di una reazione chimica provocata dall’incontro tra giapponesi, che non conoscevano la mentalità sportiva, e stranieri, che non conoscevano la mentalità budo, attraverso la disciplina comune del judo. Analizzando questa reazione chimica possiamo individuare il problema essenziale.


Il judo è stato inserito come disciplina ufficiale alle Olimpiadi di Tokyo del 1964 (per le donne, a partire dalle Olimpiadi di Barcellona del 1992). L’internazionalizzazione del judo era il sogno di Jigoro Kano, il fondatore della disciplina, e questo sogno si è realizzato con l’ingresso ufficiale del judo nel programma olimpico. Per i giapponesi dell’epoca, e per Kano stesso, si trattava del primo passo per diffondere il judo giapponese nel mondo, senza poter immaginare che questo sarebbe diventato anche il primo passo verso la trasformazione del judo in una disciplina conforme agli standard sportivi globali.Da allora, i Paesi che hanno adottato il judo hanno studiato intensamente la disciplina giapponese, cercando di raggiungere e superare il Giappone, migliorando il proprio livello tecnico.


Tuttavia, la filosofia che Kano ha infuso nel judo si basa su un atteggiamento budo. È una via che mira alla formazione del carattere, come espresso nei principi di “massimo rendimento con minimo sforzo” (Seiryoku Zen’yō) e “prosperità e benessere reciproco” (Jita Kyōei), e che implica un’asse temporale orientato alla ricerca per tutta la vita. Pertanto, sarebbe stato necessario trasmettere gradualmente questa filosofia attraverso istruttori capaci di comprenderla a fondo. Tuttavia, una volta diventato sport olimpico, il judo è stato travolto dalla velocità con cui si diffondeva nel mondo sportivo, senza avere né il numero sufficiente di istruttori preparati né il tempo necessario per insegnare correttamente questi valori.Inoltre, Kano e i giapponesi coinvolti nell’internazionalizzazione del judo erano semplicemente colmi di emozione per la realizzazione del sogno di diffondere il judo giapponese nel mondo, e avevano una visione ottimistica. Non presero in considerazione in modo adeguato i problemi che sarebbero sorti nel tentativo di trasmettere il concetto budo in un contesto sportivo.


Il judo giapponese aveva iniziato a prepararsi per diventare disciplina olimpica poco prima delle Olimpiadi di Tokyo, introducendo modifiche regolamentari per adattarsi. Tuttavia, a partire dalla sconfitta di un giapponese contro l’olandese Anton Geesink a Tokyo, le sconfitte si accumularono, rafforzando l’influenza dei Paesi stranieri sulle regole delle competizioni di judo.Di conseguenza, il judo olimpico è stato oggetto di ripetute modifiche, come l’aggiunta di tecniche proibite, cambiamenti ai regolamenti arbitrali e ad altre norme, tutte basate su criteri di razionalità sportiva. Ma man mano che questi cambiamenti avanzavano, la filosofia originaria di Kano si offuscava sempre di più.


Gli atleti stranieri, quindi, hanno affrontato il judo come una disciplina olimpica, sviluppando strategie basate su una logica sportiva per battere i giapponesi. Al contrario, i judoka giapponesi hanno continuato a cercare di ottenere un ippon spettacolare (Migotona Ippon), ma sempre all’interno dei criteri di valore dello sport. Questo equivale a voler combattere in un cerchio all’interno di un quadrato, lasciando inevitabilmente degli spazi vuoti agli angoli. Se fosse stato un combattimento tra persone che comprendono il judo come budo, nessuno sarebbe entrato in quegli angoli, mantenendo il combattimento all’interno del cerchio. Ma per gli atleti stranieri, che hanno sempre visto il judo come sport olimpico, è naturale sfruttare quegli spazi vuoti con tattiche basate sulla logica sportiva.


Il carattere “柔 (jū)” di judo significa “morbido”, e questo nome esprime già l’essenza del judo: “la morbidezza vince la durezza”. A un’analisi superficiale, sembrerebbe naturale che la forza sottometta la morbidezza, il grande domina il piccolo, il forte batte il debole. Ma la percezione corporea necessaria affinché la morbidezza prevalga sulla durezza si trova molto più in profondità rispetto a questi fenomeni semplici e apparenti. Cercare e sviluppare questa capacità latente dell’essere umano è il senso stesso di sistematizzare l’atto del combattimento e di dedicarvi una vita di pratica.Per trovare la tecnica della morbidezza, non bastano le regole: bisogna prima, volontariamente, sopprimere la propria tensione rigida interiore. Ma nel mondo olimpico, governato da regole modificate secondo la razionalità sportiva e orientato alla vittoria, il confronto basato sulla morbidezza non appare più.

Quando la vittoria diventa la priorità assoluta, è logico e naturale cercare la via più rapida, quella in cui la durezza sottomette la morbidezza. Ma più si persegue questa razionalità orientata alla vittoria, più il judo si trasforma in “剛道(godō) della forza invece judo”, perdendo la sua essenza di morbidezza.

 
 
 

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